Krisiun – Scourge of the Enthroned

A pensarci bene, non è che “Forged in Fury” fosse ‘sto gran lavoro. Noioso, spompato, privo di idee, con un Alex Camargo poco incisivo e composizioni non particolarmente convinte.

E a pensarci meglio, le prime avvisaglie si sentivano già da “The Great Execution”, un lavoro dove la band sperimentava nuove vie (composizioni relativamente più riflessive e di lunga durata) riuscendo discretamente nell’intento ma fallendo dove di solito eccellevano, ovvero nei brani più incazzati e deflagranti.

L’attesa per “Scourge of the Enthroned” non era di quelle spasmodiche, ecco. Per lo meno non a casa del sottoscritto.

Ma visto che un ascolto non lo si nega a nessuno (vedi Deicide, ahimè) chi scrive si è trovato a cliccare play sull’anteprima “Demonic III”, e in pochi secondi il suo scetticismo si è trasformato nel sorriso ebete di un 12enne di fronte al primo video di Sasha Grey. E dopo un minuto era già scattato l’acquisto.

Risultati immagini per krisiun scourge

 

Perchè con “Scourge of the Enthroned” i tre brasiliani sembrano ringiovaniti di 15 anni minimo: dimenticate le incertezze delle due prove precedenti, il nuovo disco segna il ritorno ai tempi di “Ageless Venomous” (ma con una migliore produzione, per fortuna) e “Conquerors of Armageddon”, e scusate se è poco.

I tre fratelloni asciugano le composizioni  e la tracklist (solo 8 pezzi), puntando dritto al sodo con un lotto di brani ottimamente scritti e suonati dove ritroviamo i Krisiun che abbiamo sempre amato: un lavoro di chitarra convulso, lacerante e serrato, un drumming forsennato ed il velenoso growling di Camargo. Tutto al posto giusto e nelle misura giusta, per un disco che idealmente non aggiunge nulla di nuovo a quanto detto dai tre durante la loro lunghissima carriera, ma che è una testimonianza innegabile dell’ottimo stato di salute della band.

Forti di una produzione di buon livello, legnate quali la Title-Track, “Demonic III”  (riff iniziali da tramandare ai posteri) o la conclusiva “Whirlwind of Immortality”, con il suo riffing vorticoso da capogiro, sono solo i tre pezzi migliori di un disco che non possiede cadute di tono e non annoia un millisecondo.

Una meravigliosa, esaltante sorpresa quella che ci hanno fatto i Krisiun nel 2018: se siete cresciuti con i primi tre album di Camargo e soci e se avete sempre perso la testa per il loro death metal senza compromessi, “Scourge of the Enthroned” è un disco assolutamente da non perdere.

Se invece non avete mai apprezzato i tre brasiliani, beh, siete semplicemente delle brutte persone.

 

 

Riflessioni – Vi ricordate i Behemoth?

C’ è stato un periodo, fra il 2000 e il 2007, durante il quale i Behemoth erano considerati (a torto o ragione è un’altra storia) la cosa più clamorosa che era capitata al death metal da almeno un lustro a quella parte.
Dall’uscita di “Thelema 6” (ricordo un famoso magazine italiano che lo descrisse come “Il disco che i Decide vorrebbero comporre”) al botto di “The Apostasy”, ogni release del combo polacco era salutata come la venuta della Bestia.
Io stesso avevo un debole per i Behemoth, inutile negarlo. Quando sentii “Demigod” per la prima volta ebbi le convulsioni e se ripenso ad alcuni passaggi di “Zos Kia Kultus” non faccio fatica a commuovermi. Perché adesso è diventato molto facile criticare Nergal e soci, e altrettanto facile rinnegare quanto (di buono) hanno fatto in passato perché si sa, spesso i metallari hanno la memoria corta e accodarsi al carrozzone dei vincenti è sempre facile.
Eppure…
Eppure nel post “The Apostasy” qualcosa nell’ingranaggio di quella macchina infernale che erano i Behemoth si è rotto. Prima l’uscita di “Evangelion”, un album formalmente inattaccabile, ma un “The Apostasy Part II” che ci si è dimenticati in fretta e che, diciamocelo, alla lunga annoiava parecchio.
Poi la cosa peggiore che potrebbe capitare, si è cominciato a parlare troppo, ma davvero troppo dei Behemoth.
Non che prima non se ne parlasse: il battage pubblicitario che ci sommergeva ad ogni nuova release dei polacchi era notevole, ma se non altro si parlava di musica. Dopo “The Apostasy” si comincia a parlare di altro: la figura di Nergal, da sempre Deus Ex-Machina della band, si fa talmente ingombrante da fagocitare l’attenzione degli addetti ai lavori e non solo. In giro si parla di “Cosa ha detto Nergal”, “Come si è vestito Nergal”, “Cosa ha fatto Nergal”.
“Nergal che strappa una Bibbia” (alla faccia dell’originalità), “Nergal che scrive un libro”, “Nergal che partecipa al The Voice polacco”, “Nergal che si veste da Papa di stocazzo e usa la fionda di Giger”.
Guai parlare della musica. Beh forse è meglio, visto che già l’inconsistenza di “The Satanist” parlava da sola: un lavoro sciatto e, almeno per chi scrive, estremamente artefatto. Un po’ di death metal qui, un po’ di black di lì, apertura melodica dall’altra parte, brano dark/ambient/avantgarde e facciamo contenti proprio tutti. Ma era tutto fumo e niente arrosto, uno specchietto per le allodole adatto a chi si è appena affacciato al metal estremo.

Risultati immagini per behemoth

Questione di giorni ed uscirà “I Loved You at Your Darkest”. Troppo facile sogghignare di fronte al titolo che negli anni ’80 avrebbe fatto incetta di eiaculatio precox fra gli amanti del goth-rock, rischierei di sembrare pregiudizievole. Meglio restare sui fatti: ennesima foto di Nergal che per il sottoscritto fa ridere i polli e due brani in anteprima, “God=Dog” (dai, davvero non ci provano più) e “Wolves of Siberia”.
Al di là di uno spostamento della proposta su lidi prettamente black (che di per se non per forza rappresenterebbe un male), è l’incredibile anonimia del riffing e la piattezza delle composizioni a lasciare interdetti. Due pezzi che non sanno di nulla ma allo stesso tempo pompati all’inverosimile, una cosa che al giorno d’oggi riescono fare solo loro e pochi altri.
E sì, non si giudica una band dall’immagine così come non di giudica un disco dopo aver ascoltato solo due brani. Magari domani esce il disco e scopriamo che ci hanno fatto uno scherzone rilasciando in anteprima solo i pezzi brutti (che sia il marketing del futuro?), ma se il buongiorno si vede dal mattino ci aspetta una grandinata di merda di proporzoni apocalittiche.
L’unica certezza è che, se solo Nergal spendesse in songwriting la metà delle energie che spreca in puttanate probabilmente parleremmo ancora di una grande band.
O almeno questo mi piace pensare.
L’unica vera certezza è che comunque “I Loved You at Your Darkest” venderà uno sproposito, per cui sono qui a parlare davvero di nulla.

Eskhaton – Omegalitheos

Gli Eskhaton si erano fatti notare nel 2011 con l’ottimo esordio “Nihilgoety”, un nero pozzo di bile e catrame che arrivava dritto dall’inferno.
Un disco (volutamente) caotico, devastante, realmente senza compromessi e che se ne sbatteva ampiamente di dover piacere per forza alla gente.
Con “Omegalitheos”, terzo full da studio, la situazione non cambia minimamente ma se vogliamo risulta ancora più estrema e insostenibile. Ma visto che stiamo parlando di death metal, la cosa non può che far piacere, perché senza stare a girarci troppo attorno la terza prova degli Eskhaton è senza se e senza ma uno dei dischi più massacranti e riusciti del 2018.
Qualcuno un tempo diceva “Extreme Music for Extreme People”; benissimo, “Omegalitheos” Traduce perfettamente in musica il concetto. Un disco per molti, ma non per tutti. Anzi, probabilmente nemmeno per molti, ma per quei pochi pazzi che dietro al chaos primordiale e ribollente del combo australiano riesce a scorgere quello che c’è nascosto, quella lucida follia, quella perversa intelligenza che al giorno d’oggi sempre meno band riescono a riversare nel nostro genere preferito.
Tanto per intenderci, in “Omegalitheos” troverete la stessa pesantissima entità sonica di dischi come “Contragenesis” (Ignivomous), “Fatal Power of Death” (Beyond) o “Svn Eater” (Lvcifyre) tanto per citare i primi che mi vengono in mente, lavori che di fatto rappresentano una rarità all’interno del panorama estremo. Lavori giganteschi, non facili da ascoltare o assimilare, ma che una volta compresi lasciano un’inquietudine che pochi altri dischi riescono a fare al giorno d’oggi.
“Omegalitheos” è esattamente così, ma forse ancora più caotico e concettualmente estremo: per tutta la durata del lavoro è lapalissiano quanto il combo australiano se ne fotta dei gusti del pubblico e sia desideroso solo ed esclusivamente di far conoscere (a chi avrà il coraggio di ascoltare) la loro personalissima concezione di inferno.
Quella di “Omegalitheos” è una tracklist che non lascia scampo, una serie di brani di una freddezza allucinante che colpiscono sia che si vada velocità insostenibili (e accade il più delle volte), sia che ci si trovi impantanati in decelerazioni tritaossa. Si tira il fiato all’altezza di un paio di intermezzi, che tuttavia mantengono comunque alta l’inquietudine dell’ascoltatore prima che altre bordate senza pietà tornino a far scempio del suo corpo.

Non è per niente semplice descrivere a parole un lavoro di questo genere: vi basti pensare che nel 2018 difficilmente troverete canzoni come la Title-Track, “Serpentity” o la conclusiva e folle “Kimah Kalu Ultu Ulla”, tre esempi di come il songrwiting degli Eskhaton non segua geometrie euclidee e non rispetti minimamente la forma-canzone alla quale siamo abituati. Nulla è come sembra in “Omegalitheos”, persino le canzoni più corte, che sareste portati a ritenere facciano da raccordo fra un pezzo o l’altro, potrebbero saltarvi alla giugulare quando meno ve l’aspettate.
Si rimane interdetti, frastornati, stremati dopo i primi ascolti del nuovo parto della creatura australiana, ma una volta acquisita la chiave di volta sarete in grado di decifrare il linguaggio oscuro contenuto in “Omegalitheos”, e allora comincerete a godere come dei matti.
Sia chiaro, un lavoro come questo non è assolutamente facile da ascoltare: serve pazienza e la giusta dose di coraggio per affrontare un tour de force di questo genere, ma se andate in giro a dire di ascoltare musica estrema e poi un lavoro come “Omegalitheos” vi spaventa beh, forse è meglio porsi delle domande.
Prova incredibile dei musicisti, produzione caotica il giusto senza sacrificare gli strumenti e copertina più figa del 2018 fanno da quadratura del cerchio.
Ora come ora, se quest’anno vi poteste permettere solo un disco, vi direi di gettarvi sugli Eskhaton senza pensarci due volte.

In Pillole: Lectern – Monstrosity – Purtenance

  • Lectern – Deheadment for Betrayal (2018, Via Nocturna)

Giungono al terzo full-length i Lectern, band capitolina attiva nell’underground da ormai parecchi anni e che di recente ha avuto l’onore di aprire per gli Avulsed. Conosciuti e spesso criticati per il loro inglese ricco di neologismi, il quartetto di Roma guidato dal bassista/cantante Fabio Bava porta avanti una concezione di Death Metal proveniente dai primi anni ’90 e lo fa con una certa convinzione. “Deheadment for Betrayal” pesca a piene mani dall’asse Morbid Angel/Deicide senza disdegnare anche qualcosa dei primi Immolation nei passaggi più monolitici, aggredendo l’ascoltatore con un riffing diretto e senza fronzoli, un drumming essenziale e il vocione profondo di Fabio. Siamo di fronte ad un prodotto onesto e piacevole, con una tracklist che non teme particolari cali di tensione seppur ogni tanto si abbia l’impressione che la band viaggi col freno a mano, finendo spesso in territori dove il mid-tempo la fa da padrone, quando in realtà dimostrano di sapersi muovere bene anche in quelli più veloci. Particolare comunque l’inserto di alcuni passaggi ai limiti dello slam in un contesto prettamente Death Metal come capita di sentire nella Title-Track o in “Provvid as Gemel Confessors”. Non è un disco imprescindibile questo “Deheadment for Betrayal”, ma l’attitudine è quella giusta, la produzione è adeguata e i brani posseggono un bel tiro, per cui se siete amanti del Metallo Della Morte anni ’90 un ascolto dovreste darglielo.

 

  • Monstrosity – The Passage of Existence (2018, Metal Blade)

Premessa: ho apprezzato il precedente “Spiritual Apocalypse”.

Premessa due: ho sentito dire in giro che la produzione fa schifo ai vermi e che siamo di fronte al peggior disco dei floridiani. Ora, è vero che i suoni avrebbero dovuto essere più incisivi e che ad esempio il lavoro di Harrison ne esce abbastanza sacrificato, ma è altrettanto vero che in giro si sente molto di peggio e nel complesso il disco si fa ascoltare piuttosto bene. Poi, siamo di fronte al peggior disco dei Monstrosity? Beh forse, ma il tutto va calato nel giusto contesto, perché il peggior disco dei Monstrosity non per forza va tradotto in “Brutto Disco”. “The Passage of Existence”, per chi scrive, è un come-back riuscito e in linea con quanto fatto col precedente: Death metal floridiano scritto e suonato con una certa classe, molto tecnico ma comunque aggressivo e con un buon lavoro di chitarra (Mark English meglio qui che nei recenti Deicide) che davvero non capisco come possa non piacere a chi è amante di tali sonorità. Il disco ha dei difetti, certo; troppi pezzi (si poteva snellire  la tracklist levando due-tre episodi non del tutto all’altezza), suoni non ai massimi livelli e sì, probabilmente 11 anni d’attesa meritavano un ritorno con un peso specifico di altra entità, ma sarebbe ingiusto non riconoscere la bontà di brani come “Cosmic Pandemia”, “Solar Vacuum” o “Eternal Void” tanto per fare un esempio. Un buon ritorno, nulla più.

Ma anche nulla di meno.

 

  • Purtenance – Paradox of Existence (2017, Xtreeme Music)

Autori del cult “Member of Immortal Damnation”, i Purtenance sono tornati sulle scene qualche anno fa con il buon “Awaken from Slumber” ed il successivo “…To Spread the Flame of Ancients”.

“Paradox of Existence”, EP di quattro brani uscito sempre tramite Xtreem Records, continua sulla falsariga del precedente lavoro, per un Death Metal che non tradisce le radici della band, fatto di spiacevoli sensazioni palustri alternato a deflagrazioni in blast-beat che ben riassumono la scuola finlandese della quale i Purtenance fanno parte.

Alla band di rinnovare o innovare il genere frega una cippa chiodata, e infatti “Paradox of Existence” è un lavoro tanto rassicurante quanto prevedibile, dove tutto è al posto giusto e nella misura giusta, talmente tanto che nel complesso piacerà agli amanti di tali sonorità ma che fatica ad uscire dall’anonimato, dal momento che al giorno d’oggi siamo di fronte ad una saturazione di questo genere fra ritorni illustri e nuove band dedite all’old-school. La domanda è semplice: i Purtenance lo fanno meglio di altri? Sicuramente meglio di altri sì, ma senza raggiungere particolari picchi per i quali “Paradox of Existence” dovrebbe diventare un acquisto obbligato.

Insomma, un (buon) lavoro di mestiere da parte di onesti mestieranti.

 

 

Deicide – Overtures of Blasphemy

Tornano i Deicide, per l’ennesima volta.

E possiamo anche stare a fare i sostenuti o quelli a cui non gliene frega niente, ma non ci casca nessuno, ogni volta che Benton e soci si riaffacciano sulle scene la curiosità c’è sempre.

Peccato che a questo giro “Overtures of Blasphemy” è un buco nell’acqua: a nulla valgono la copertina sanguinolenta ed un titolo importante e ingombrante se manca l’ABC di un disco Death Metal, ovvero cattiveria e quella cosa che si chiama songwriting.

E non cominciate subito a dire “Eh ma te sei un oltranzista, per te i Deicide si saranno fermati a Legion, il tempo passa per tutti”.

Nulla di più sbagliato, chi scrive pur preferendo i primissimi Deicide è stato capace di apprezzare (e anche tanto) il dittico “The Stench of Redemption”/”Til Death do Us Part” oltre che il precedente e piacevole “In the Minds of Evil”, che era tutto fuorché imperdibile ma poteva vantare qualche bell’assalto come “Godkill”, “End The Wrath of God” o “Between the Flesh and the Void”. In mezzo c’era quella schifezza indicibile di “To Hell With God”, un disco talmente anonimo che probabilmente pure i Deicide si sono dimenticati di aver scritto.

“Overtures of Blasphemy” è brutto uguale, ma per motivi diversi.

Siamo di fronte al disco più leggero e innocuo di Benton e soci, a tratti davvero educato: un lavoro che non graffia, non colpisce e che punta moltissimo sulla melodia (sempre a livello di assoli) per raggiungere un bacino d’utenza ancora più ampio. Certo, le melodie c’erano e pure tanto anche in “The Stench of Redemption” ma per prima cosa erano di tutt’altra pasta e secondo poi il riffing era comunque presente. “In Overtures of Blasphemy” il lavoro di chitarra è il grande assente: riff lineari e prevedibili, spesso molto simili l’uno con l’altro, alternati a qualche momento più compresso, ma il tutto appare estremamente svogliato e quindi parecchio prevedibile. Sicuramente gli assoli sono di pregevole fattura, ma in brani di due minuti e mezzo se un minuto è costituito da scale che vanno su e giù rimane poca roba attaccata e quella poca roba è tutto fuorché interessante. Il nuovo innesto di Mark English (Monstrosity) al posto del defezionario Owen porta una maggiore cura in fase solista, certo, peccato che da solo non basti a reggere l’intero lavoro.

A tratti “Overtures of Blasphemy” sembra un downgrade di “The Stench of Redemption”: se il disco del 2006 aveva dalla sua l’essere una assoluta novità, il come-back di cui parliamo oggi appare poco convinto e fuori tempo massimo.

Poco altro da dire: produzione di buon livello (ma anche qui estremamente educata) e ottimo Benton dietro al microfono, ma “Overtures of Blasphemy” è il classico disco che ci si dimentica non appena smette di girare nel lettore.

In Pillole: Infuriate – Excommunion – Necrowretch

  • Infuriate – Infuriate (2018 – Everlasting Spew)

Questo simpatico combo Texano (di Austin) esordisce sotto la nostrana Everlasting Spew con 30 minuti di brutal/Death che viaggia perennemente sulla lama del rasoio fra i due generi, unendo sapientemente tecnica e attitudine, brutalità e freschezza compositiva.

Di per se non inventano nulla di nuovo, ma dimostrano di saper maneggiare sapientemente i generi partorendo una serie di brani accattivanti e ben orchestrati fra accelerazioni al cardiopalma, tecnicismi e cesellature (mai eccessivi o fuori luogo) e qualche momento più compresso e spezzacollo.

Di grande impatto l’ottimo lavoro di chitarra di “Slaughter for Salvation” e “Matando”, prova di una certa capacità di sintesi in fase di songwriting che permette ai ragazzi di non annoiare mai e di mantenere ben alta l’attenzione di chi ascolta.

Da segnalare il notevole lavoro del basso, una volta tanto non sacrificato a livello di produzione.

Per fan di Deeds of Flesh (non gli ultimi), Disgorge, Sarcolytic, Disavowed.

  • Excommunion – Thronosis (2017 – Dark Descent)

Autori di un primo full nel 2002 e del cult split con i Dethroned (2006), gli Excommunion ci mettono 11 anni per tornare dal mondo dei morti (in mezzo, l’ascesa e la morte degli immensi Maveth, nei quali militava Christbutcher). Ci pensa mamma Dark Descent a dar loro una mano ed eccoli quindi di nuovo in pista con 4 brani oscuri, pesanti e malsani come vuole la tradizione.

“Thronosis” è un disco relativamente breve (circa 28 minuti) ma dannatamente imponente e a suo modo epico, un macigno di ossidiana che non lascia scampo e non teme cadute di tono: quattro brani a disposizione e quattro piccoli capolavori di Death Metal blasfemo e sulfureo fra blastbeat brucianti e decelerazioni Death/Doom angoscianti. Grazie ad una produzione adeguata ed un Christbutcher sempre efficace, gli Excommunion tornano con la grinta di chi sembra non essersene mai andato e ci consegnano pezzi del calibro di “Nemesis” e “Twilight of Eskhaton”, che confermano come i ragazzi siano capaci di mantenere alta la tensione sia quando tirano come dei forsennati sia quando cercano l’atmosfera.

Da avere.

  • Necrowretch – Satanic Slavery (2017 – Season of Mist)

Il terzo assalto delle bestie francesi non è che l’ennesima conferma del talento di Vlad e soci: “Satanic Slavery” riprende il discorso interrotto con “With Serpents Scourge” e lo porta alle estreme conseguenze.

Parliamo sempre di un Death affilato e lacerante, che viaggia con nonchalace fra Europa e America e arricchito da importanti venature black, per una proposta dall’impatto devastante e altamente belligerante, perfetta per essere riproposta in sede live.

Non si inventano nulla di particolarmente nuovo, anche se si può notare in fase di songwriting forse un accentuarsi dei fraseggi melodici più malsani che comunque hanno sempre contraddistinto l’assalto dei francesi. Pur muovendosi nella tradizione le composizioni non sono mai banali o prevedibili. Sugli scudi la Title-Track, eccezionale inno di blasfemia e corruzione.

Meglio del seppur buon disco precedente.

 

Hellish God – The Evil Emanations

Questa sarà una recensione speculare al disco in questione, uscito per Everlasting Spew Records.

Una recensione diretta e senza fronzoli per un disco diretto e senza fronzoli, che punta immediatamente al sodo senza perdersi in cazzate senza senso.

Stiamo parlando di “The Evil Emanations”, primo mostruoso vagito della creatura Hellish God, combo italianissimo nelle quali fila troviamo Tya (voce, ex-Antropofagus), Luigi (batteria, terremoto umano), Stefano (basso, già nei Quantum Hyerarchy) e Michele (chitarra, Burst Bowel).

Mezz’ora di musica e di deflagrazioni soniche supportate da copertina che fa piangere le nonne e produzione gigantesca, per un Death Metal senza compromessi che fa dell’impatto la propria arma principale.

Influenze? Scuola brasiliana (Rebaelliun, Abhorrence, Krisiun) ma non solo, con svariati echi americani (Deicide in più di un occasione) ed europei (Centurian, che poi anche loro vanno a riprendere gli americani ma vabbè), il tutto frullato alla velocità della luce e con la pesantezza di una stella che collassa su sé stessa.

Risultato? Un album intenso, ottimamente composto e suonato benissimo (notevole la prova di Lugi dietro le pelli, efficace come mai prima d’ora Tya al microfono, uno dei migliori growler italiani), ma dove la tecnica comunque passa in secondo piano a favore dei contenuti. “The Evil Emanations” è un disco tutto ciccia, tutta sostanza, in cui si legna come ai vecchi tempi e le chitarre dominano la scena in maniera tanto semplice quanto efficace.

Una serie di brani estremamente efficaci e ideati per ricreare l’inferno in sede live, dove sicuramente gli Hellish God daranno ulteriore prova delle loro notevoli capacità.

La durata contenuta del disco è un scelta assolutamente azzeccata e felice: in circa 30 minuti non si assiste a cadute di tono e la tracklist procede la sua folle corsa dall’inizio alla fine, con picchi qualitativi del calibro di “The Hindering Ones”, “Agitator Shall Be Trumphant” o “Marchng with the Accuser”.

“The Evil Emanations” non sposta le sorti del Death Metal nostrano o mondiale, ma aiuta a mantenerlo in salute e a portare avanti l’attitudine che questo genere DEVE portarsi dietro, che spesso le nuove leve tendono a dare per scontata o a dimenticarsi.

Respirate anche voi le Emanazoni Maligne e ricordatevi cosa significhi suonare e vivere il Death Metal.

Retrospettiva Hate Eternal

Ok, tutti (o per lo meno tutti i fighi) sono in attesa del nuovo mostro targato Hate Eternal; il successore del mostruoso “Infernus” si intitolerà “Upon Desolate Sands” e uscirà a fine ottobre per Season of Mist, il che è un’ottima occasione per ripercorrere la discografia della creatura di Erik Rutan e riascoltarsi come si deve dei grandissimi dischi.

Pronti?

Via.

 – “Conquering the Throne” (1999, Wicked World)

Quando uscì lessi pareri discordanti sulle testate metal dei tempi; col senno di poi siamo di fronte ad uno dei dischi più importanti del periodo, uscito non a caso al termine del millennio scorso. Un disco che di fatto parte dall’esperienza di Rutan con i Morbid Angel (e di Cerrito con i Suffocation) e che mescola in maniera perfetta death metal floridiano con le cesellature più teniche del brutal, facendo da apripista per svariati gruppi post-2000 che da questo disco attingeranno a piene mani con risultati non sempre altrettanto convincenti. Forte di una line-up allucinante (oltre a Rutan e Cerrito abbiamo Tym Yeung alla batteria e Jared Anderson al basso), il primo disco degli Hate Eternal è un susseguirsi di istant-classics, dalle convulse “Catacombs” e “Dogma Condemned” alla forsennate “Spiritual Holocaust” e “Nailed to Obscurity”. Un disco che non ha perso un’oncia della sua pesantezza e furia e ancora oggi mette in riga schiere di epigoni che, semplicemente, quello che Rutan ha dimenticato loro devono ancora impararlo.

 

 – “King of all Kings” (2002, Earache)

Un disco massacrato all’epoca, e ad ogni ascolto ci si rende conto di quanto a volte il mondo sia ingiusto. Orfano di Cerrito e Yeung ma sempre accompagnato dal fido Anderson, Rutan assolda dietro le pelli la macchina umana che risponde al nome di Derek Roddy e ci consegna un disco perentorio e assolutamente privo di mezze misure. Giocato al 95% su tempi velocissimi e caratterizzato da una produzione più scarna del suo predecessore, “King of all Kings” è un disco che non fa sconti e si regge su un riffing al vetriolo ed una serie di brani incredibili come la Title-Track, “Born By Fire”, “Chants in Declaration” o la conclusiva “Powers That Be”, che mettono in luce anche l’incredibile lavoro di Anderson al basso. Il secondo lavoro degli Hate Eternal il un’opera trascinante, un fiume in piena di malvagità e follia che non lascia prigionieri.

 

 – “I, Monarch” (2005, Earache)

Ultimo disco con Roddy dietro le pelli e primo con Randy Pyro al basso. Gli Hate Eternal continuano ad essere un terzetto ma continuano a fare casino manco fossero in 200. “I, Monarch” è il disco della consacrazione e quello dove il songwriting di Rutan si fa più personale e in effetti quello che andrà a codificare il sound delle future uscite della band. I tempi sono sempre forsennati e velocissimi ma il tutto si fa un pò più grosso e rotondo e a questo giro Rutan si permette di inserire un paio di novità/sperimentazioni qua e là per rompere la routine, quali le percussioni della strumentale “Faceless One” o lo stacco ipnotico e granitico della parte centrale di “To Know Our Enemies”. Un disco che ai tempi piacque praticamente a tutti e che consolidò ulteriormente il monicker Hate Eternal nelle file di chi conta.

 

 – “Fury & Flames” (2008, Metal Blade)

Dopo il disco della consacrazione, quello dello scandalo. Il successore di “I, Monarch” è un disco di una pesantezza indicibile, un monolite inscalfibile di crudeltà e perversione rovinato, purtroppo, da un lavoro in fase di consolle assurdo, dove Rutan sembra aver settato tutti i volumi al massimo perchè beh, se metti tutto al massimo il risultato non potrà che essere molto brooooodale. Il risultato è un pastrocchio sonoro che ai tempi fece incazzare parecchia gente: peccato, perchè se ci si concentra ci si rende conto che il songwriting è ancora di primo livello “Bringer of Storms”, “Thus Salvation” o la commovente “Tombeau” mostrano tutta la classe compositiva di un chitarrista incredibile ed uno dei deathster più convinti in circolazione. Livelli tecnici altissimi con line-up nuovamente rinnovata con Shaun Kelley alla chitarra, Jade Simonetto alla batteria e Alex Webster a dare una mano al basso.

 

 – “Phoenix Amongst the Ashes” (2011, Metal Blade)

Messi a posto i volumi, Rutan torna con un disco interlocutorio in realtà molto ben riuscito. “PATA”è il disco dove Rutan scopre che si può anche rallentare e fare cose comunque molto fighe: ne esce un lavoro più vario e flessibile dell’immediato predecessore, nel quale per una mazzata come “Lake Ablaze” o “The Eternal Ruler” abbiamo un brano più lento e ragionato come “Haunting Abound” (eccezionale lo stacco centrale) o l’epica e melodica “The Fire of Resurrection”. Un disco più immediato del predecessore e che per questo si fa ascoltare più facilmente (e molto più spesso), un passo verso l’olocausto sonoro che sarà il suo successore.

 

 – “Infernus” (2015, Season of Mist”)

Poco da dire, se non che siamo di fronte ad uno dei punti più alti mai raggiunti dalla band. “Infernus” è un disco pesantissimo ma questa volta con una produzione all’altezza, che mantiene la versatilità del predecessore ma che estremizza quasi tutte le caratteristiche degli Hate Eternal. E così i pezzi veloci si fanno ancora più veloci (“Pathogenic Apathy”, “Order of the Arcane Scripture”, “The Chosen One”) e quelli più lenti si fanno più epici e monolitici (la Title-Track o alcuni momenti della conclusiva “O’ Majestic Being, Hear My Call”), per un lavoro che non teme rivali in fatto di brutalità e songwriting.

Dopo sei album c’è poco da stare a spaccare il capello in 4: gli Hate Eternal nella loro carriera hanno sbagliato praticamente poco o nulla e tutt’oggi, a quasi 20 anni di distanza dall’uscita di “Conquering the Throne”, rappresentano un faro di abbagliante oscurità nel panorama death metal: il merito va tutto ovviamente a Erik Rutan, Deus Ex Machina lungimirante ed intelligente, che ha saputo rinnovare la propria creatura senza mai snaturare il proprio sound e rimanendo perfettamente coerente con la sua concezione di death metal. Concezione che coincide, spero, con la vostra.

Con la mia di sicuro.

Skeletal Remains – Devouring Mortality

Ogni tanto mi piace andare controcorrente e devo dire che col senno di poi il primo disco degli Skeletal Remains, terzetto americano dedito ad un death metal Old School debitore di Pestilence, Morbid Angel e Asphyx (in particolare i primi due) è stato per lo meno leggermente sopravvalutato ai tempi dell’uscita.

Un buonissimo debut sia chiaro, ma nel complesso il songwriting mostrava diversi punti da migliorare (ricordo soprattutto la difficoltà nel saper “chiudere” i pezzi): già con il secondo “Condemned to Misery” la situazione migliorava comunque notevolmente e con “Devouring Mortality” i livelli si alzano ulteriormente grazie ad un songwriting davvero eccellente, una produzione decisamente grossa ed una prova dei musicisti coinvolti davvero notevole.

Va detto che la proposta è sempre quella a cui ci ha abituato il combo californiano, per cui parliamo di un death metal vecchio stampo che mescola Morbid Angel, Death, Pestilence (pazzesco come il vocalist Chris Monroy si avvicini a Van Drunen).

Abbiamo quindi un lavoro che non inventa nulla, non innova una fava di niente ma che, guarda caso, fa quello che deve fare un disco di puro e vero death metal: fare male a chi lo ascolta, demolire i timpani, spezzare le cartilagini e triturare le ossa.

Roba da non credere per i sostenitori dell’innovazioni e delle sperimentazioni, ma un disco come “Devouring Mortality”, che non contiene filler ma anzi mantiene la tensione alta per tutti i suoi tre quarti d’ora di durata, al giorno d’oggi diventa un disco necessario per misurare lo stato di salute del death metal e conferma la bontà della proposta del terzetto americano, che forte di brani del calibro di “Seismic Abyss” (e al riff d’apertura un deathster duro e puro non può non essere in pace col mondo) o anche la deflagrante e conclusiva “Internal Detestation”, ci consegna il loro lavoro più riuscito e un appuntamento immancabile per chiunque abbia lasciato le proprie orecchie ai primi anni ’90.

Inutile dire che tecnicamente i ragazzi sono mostruosi (sezione ritmica cazzutissima e assoli di pregevole fattura) così come inutile stare a lodare il lavoro dell’inconfondibile Dan Seagrave per l’artwork, valure aggiunto ad un disco che davvero, non può non piacere.

Si ricomincia

Salve a tutti, per iniziare in maniera completamente scontata mi chiamo Luca, forse qualcuno di voi si ricorderà di me come colui che ha gestito per diversi anni il sito Empire Of Death, sito specializzato in Death Metal. Diversi fattori non del tutto dipendenti dalla volontà del sottoscritto lo hanno purtroppo portato nel 2017 a doversi allontanare dalla musica e dalle proprie passioni in generale. Cazzi miei direte voi. E a ragione tra l’altro. Ma per chi seguiva Empire Of Death una spiegazione è doverosa. Senza stare a fare troppi giri di parole, a causa di alcune esperienze non propriamente felici sia a livello lavorativo (soprattutto) che familiare il tempo (e la volontà) sono venuti a mancare e a farne le spese è stata la qualità del servizio proposto: servizio che, si badi bene, era portato avanti solo ed esclusivamente per passione e non per tornaconto personale.

Per fortuna il tempo passa e le cose cambiano, e da qualche settimana al sottoscritto è tornata la voglia di death metal e con essa di condividere (con chi vuole) pensieri e parole sulla propria musica preferita. Ecco spiegato questo nuovo blog, gestito solo ed esclusivamente dal sottoscritto.

Ci vediamo quindi su queste pagine, se ne avrete voglia, con recensioni e commenti sulla scena death di oggi: l’idea non è quella di fare un blog di sole recensioni (che non avranno votazione) ma di uscire, per quanto possibile, dalla routine solita e fare qualcosa di più dinamico  e flessibile. Il che messa così vuol dire un cazzo di niente e sinceramente nemmeno io so cosa scriverò fra cinque minuti, per cui non resta che restare sintonizzati sulla pagina e vedere un pò quello che succede.

A presto e grazie

Luca